lunedì 27 dicembre 2010

Scripta manent, n. 2 - Essere o non essere

Vi faccio un bel regalo stavolta: vi porto nientemeno che Shakespeare! Vi porto il suo Amleto, il malinconico ma palpitante principe di Danimarca dell’omonima tragedia, scritta quattro secoli fa, ma che ha messo sul palco emozioni e sentimenti universali e onnipresenti presso tutti gli uomini. Vi porto l’apoteosi del dramma di questo principe, di quest’uomo deluso e tradito, il cui animo fu sporcato da un delitto di sangue che proprio non meritava, un delitto che è un’offesa a quella «nobile mente», come lo chiama Ofelia, che ella amava così tanto; quel principe che, dopo quel dramma, imparò a odiare con la stessa forza con cui amava.
Il passo è il celeberrimo monologo dell’Essere o non essere, uno dei brani più famosi di tutta la letteratura mondiale, recitato dallo stesso Amleto nel terzo atto. Tecnicamente, più che di un monologo, si tratta di un soliloquio, in cui Amleto si interroga se sia il caso di vivere (essere) o morire (non essere), se sia più «nobile» lottare contro le pene o abbandonarsi a esse; un soliloquio dove si parla della morte come di un sonno, un sonno che molte volte si desidera per sfuggire a dolori eccessivi; una morte che tuttavia non abbiamo il coraggio di dare a noi stessi, magari con un «nudo» pugnale, così, semplicemente, perché abbiamo paura di quello che potremmo trovare dopo, delle pene che potrebbero essere addirittura maggiori di quelle di cui ci lamentiamo in vita, una morte di cui temiamo le conseguenze, che fanno tanto più paura quanto più sono ignote. E a causa di questo tipo di timore, la volontà di farla finita si scolora, diventa pallida sotto il peso del pensiero e la nostra deliberazione resta tale senza concretizzarsi in azione.

gdfabech

Essere o non essere, questo è il dilemma:
è forse più nobile soffrire nella propria mente
le pietre e i dardi dell’avversa sorte,
o invece prendere le armi contro un mare di afflizioni
e metter loro fine a forza di combatterle? Morire, dormire.
Null’altro; e con un sonno dire che mettiamo fine
alle pene del cuore, e a mille offese naturali
di cui la carne è erede; questa sì che è una conclusione
da desiderare con devozione. Morire, dormire;
dormire, magari sognare. Ahimè, qui sta l’ostacolo;
poiché in quel sonno di morte i sogni che potrebbero venire,
quando ci saremo liberati dal viluppo di questa spira mortale,
devono darci motivo di esitare: in questo consiste lo scrupolo
che rende la sventura così durevole:
perché chi sopporterebbe le frustate e le derisioni del secolo,
i torti dell’oppressore, gli oltraggi dei superbi,
le sofferenze dell’amore non corrisposto, gli indugi della legge,
l’insolenza di chi ha il potere, e l’offesa
che il merito paziente riceve da chi è indegno,
quando egli stesso potrebbe darsi la pace
con un nudo pugnale? Chi sopporterebbe il peso,
a gemere e sudare sotto una vita fiacca,
se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte
– quella terra inesplorata dai cui confini
nessun viaggiatore ritorna – rende perplessa la volontà,
e ci fa sopportare quei malanni che già abbiamo,
invece che volare ad altri di cui non sappiamo nulla?
Così la coscienza rende vigliacchi tutti noi,
e così l’originario colore della decisione
è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero,
e imprese di grande altezza e grande portata
con questo scrupolo deviano via il loro corso
e perdono il nome di azione.

William Shakespeare, Hamlet, atto III, scena I



                Credo, però, che un testo del genere, sia doveroso proporlo anche nella sua versione originale, poiché, in poesia più che in prosa, vale il detto “Traduttore è traditore”. In inglese è tutta un’altra cosa! A chi fosse amante della lingua britannica o semplicemente del linguaggio shakespeariano consiglio di leggere anche il testo originale, e magari sbirciare la scena del soliloquio tratta dal film Hamlet del 1996 diretto da Kenneth Branagh, la versione cinematografica dell’Amleto più bella che abbia mai visto.


To be, or not to be, that is the question:
whether ’tis nobler in the mind to suffer
the slings and arrows of outrageous fortune,
or to take arms against a sea of troubles
and, by opposing, end them? To die, to sleep.
No more; and by a sleep to say we end
the heart-ache, and the thousand natural shocks
that flesh is heir to; ’tis a consummation
devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
to sleep, perchance to dream. Ay, there’s the rub;
for in that sleep of death what dreams may come,
when we have shuffled off this mortal coil,
must give us pause: there’s the respect
that makes calamity of so long life:
for who would bear the whips and scorns of time,
the oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
the pangs of disprized love, the law’s delay,
the insolence of office, and the spurns
that patient merit of the unworthy takes,
when he himself might his quietus make
with a bare bodkin? Who would fardels bear,
to grunt and sweat under a weary life,
but that the dread of something after death
– the undiscovered country from whose bourn
no traveller returns – puzzles the will,
and make us rather bear those ills we have,
than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all,
and thus the native hue of resolution
is sicklied o’er with the pale cast of thought,
and enterprises of great pitch and moment
with this regard their currents turn awry
and lose the name of action.

sabato 25 dicembre 2010

Riforma Gelmini: un dibattito sui suoi effetti

     Nel mio precedente post ho fatto un rapido cenno alle proteste studentesche che recentemente si sono sollevate contro il disegno di legge del Ministro Gelmini sulla riforma universitaria. Questa volta mi preme tantissimo scrivere due righe sugli effetti del disegno una volta approvato. In principio il mio intento era quello di leggere il testo integrale e poi scriverci delle considerazioni, ma ho dovuto abbandonare questa deliberazione per almeno due motivi: 1) non è possibile reperire il testo definitivo del disegno di legge fin quando esso non sarà stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (cosa che avviene poco dopo l’approvazione di un disegno di legge); 2) se anche avessi trovato il testo definitivo e l’avessi letto e compreso tutto, il fatto stesso di averlo presentato io sarebbe stata una mancanza di obiettività.
     Ho ritenuto invece molto più costruttivo ed efficace (e anche più breve) riunire in un unico post dei video in cui si simuli un dialogo, un dibattito, un vero e proprio confronto tra le parti sul contenuto del disegno e sulle sue conseguenze, dei video dove a parlare siano proprio i diretti interessati, ovvero: da una parte il Ministro Gelmini in persona e dall’altra coloro che criticano la sua riforma. Si tratta di video molto fruibili e brevi che espongono a mio avviso in modo chiaro e inequivocabile il punto di vista delle due parti. Il mio obiettivo, nel fare ciò, è duplice: da una parte vorrei che si facesse informazione sul problema, perché quando si ascoltano entrambe le parti vengono fuori molte più cose: in questo modo la gente può farsi un’opinione molto più libera del problema. In secondo luogo, se si mettono a confronto le due fazioni, emergono in maniera molto più evidente le contraddizioni della parte che ha torto, cosa più difficile da fare quando si esamina una questione considerando solo un aspetto di essa.
     È chiaro che trovare una sola persona che parli di tutto il contenuto del decreto è impossibile: quindi ho linkato vari video, ognuno dei quali parla di un aspetto in modo diverso. Sotto ogni link troverete una breve didascalia che dovrebbe indirizzarvi sul contenuto. Ho scelto di pubblicare video che non fossero estratti da un qualche telegiornale o da uno di questi programmi di dibattito politico, proprio perché non si potesse dire che sono fonti di parte: il mio augurio è che li vediate tutti e che anzi me ne siano segnalati altri. Spero che aiutino a comprendere.
     Per cavalleria, farei cominciare a parlare il Ministro in persona, che dal suo canale di YouTube così si esprimeva riguardo la questione.



     Il ministro Gelmini cerca di preparare l’opinione pubblica e di tranquillizzare gli studenti, temendo che siano tutti stati plagiati e condizionati dai “baroni” che hanno l’interesse a mantenere lo status quo. Se da una parte è vero che presso molti giovani (studenti e non) non c’è coscienza di quello che accade loro intorno, e se quindi è vero che essi sono facilmente influenzabili, tuttavia trovo estremamente inverosimile e mi rifiuto di credere che l’intero corpus di coloro che protestano – che non sono solo, attenzione, studenti, ma anche professori, rettori, ricercatori precari e perfino studenti di paesi stranieri che con l’Italia non hanno nulla a che vedere! – abbia deciso di far andare in vacanza il cervello e si sia fatto abbindolare da questi baroni. Mi rifiuto di credere che nessuna di queste persone abbia saputo ragionare a mente lucida sul problema. Mi rifiuto di credere che centinaia di migliaia di persone si siano tutte rincretinite di colpo, che non abbiano capito nulla e che abbiano tutti frainteso mentre un singolo Ministro abbia veramente ragione.
     Dopo aver preparato il terreno, la Gelmini tenta di rendere conto dei punti più salienti della sua riforma, provando a rispondere alle critiche che sono state mosse al riguardo. Nel fare ciò ella chiama in causa dei principi di per sé giusti, fa appello a esigenze davvero esistenti nel nostro mondo universitario e dice di voler risolvere questioni annose che effettivamente sono presenti nell’ambiente della didattica (parlo per esempio della necessità di premiare i più meritevoli, dell’esigenza di razionalizzare le risorse, della lotta alle baronie, tutte cose condivisibilissime dette così): tuttavia è il come che non convince i “critici”.
     Mi pare opportuno far notare che il Ministro fa appello a un criterio particolare, per tutta la durata del video, per giustificare il suo intervento, ovvero quello secondo cui è necessario fare tagli e razionalizzare le risorse a causa della crisi economica del nostro Paese. Cioè, secondo il Ministro, poiché ce la passiamo male, qualcuno deve pagare. E secondo lei chi si deve sacrificare è proprio l’Istruzione: si prende questo settore e si usano i fondi a esso destinati per fare altro (e lasciamo stare per ora cosa sia questo altro).
     Il sottoscritto, in tutta la sua umiltà, ritiene invece che non abbia molto senso tagliare proprio in quel settore nelle cui mani c’è il futuro del Paese, bensì che sarebbe molto meglio se fossero i governi a tamponare (se non a risolvere) la crisi elaborando un’adeguata politica economica, di quelle che non siano sottoposte alle influenze delle multinazionali o alle esigenze personali di alcuni politici che non sono solo politici ma nello stesso tempo sono anche industriali-imprenditori, che quindi hanno tutto l’interesse a fare leggi che mettano loro in mano quanti più soldi possibili, anche se questo significa creare monopoli economici rallentando l’economia generale. Non è l’Istruzione a doversi sacrificare per venire incontro alla crisi: sono i governi che hanno l’obbligo di risolvere la crisi, investendo il più possibile sui giovani che dovranno lavorare, come si fa in qualunque altro luogo del pianeta. Usare la crisi come pretesto per giustificare i tagli è una scusa palesemente paracula, almeno nel caso presente in questione!
     E, sempre secondo il modestissimo parere del sottoscritto, sarebbe anche meno ipocrita ammettere che una buona parte della crisi di cui il nostro Paese soffre è opera proprio dell’evasione fiscale e degli altri reati finanziari (che riguardano cioè il denaro che manca in questa crisi!) a cui si sono dedicati da sempre molti di quei politici che abbiamo avuto al governo, senza distinzioni di bandiera. Quindi si passassero prima loro una mano sulla coscienza e riconoscessero la loro parte di responsabilità! Nel caso specifico vorrei citare, a riprova di quanto dico e anche per rispondere al Ministro, gli innumerevoli processi per evasione fiscale, falso in bilancio, frode fiscale, tangenti fiscali e perfino di riciclaggio di denaro sporco che hanno visto – e vedono ancora! – protagonista il nostro attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, quello stesso uomo cui il Ministro Gelmini, diligentemente addestrata, non ha dimenticato di far cenno nel suo video. Processi noti a tutti e su cui chiunque può informarsi in ogni momento. Processi che o non si sono ancora conclusi, o che sono caduti in prescrizione, ovvero processi che la giustizia ha rinunciato a portare a termine perché si sono protratti oltre il termine temporale ragionevolmente previsto e sui quali, quindi, non è mai stato permesso che si facesse luce.


     Detto questo, ascoltiamo ora le brevi risposte di una parte degli oppositori alla riforma.


     Questo video, realizzato dal Sindacato degli studenti in collaborazione con l’Assemblea studentesca Link è diviso in due parti, ognuna delle quali dura 2 minuti: nella prima si descrive con una rappresentazione schematica molto diretta e semplice il problema dell’organizzazione interna che l’università avrà dopo la riforma, ovvero quella che si chiama governance, si descrive il nuovo (e depauperato) ruolo che il Senato accademico assumerà e l’introduzione del nuovo organo che è il Consiglio di amministrazione e i rischi che si corrono nel dare il potere in mano a enti esterni che non hanno interesse a curare lo stato degli atenei; nella seconda parte invece viene focalizzata la figura del ricercatore e il peggioramento delle sue condizioni in seguito all’attuazione della riforma in legge.

La riforma spiegata dal Professor Picone

     In questo video il Prof. Giusto Picone, docente di Letteratura latina presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Palermo, esprime in una breve intervista di 7 minuti alcune contraddizioni insite nella riforma, ovvero il fatto che molti dei problemi che essa si propone di risolvere vengano di fatto aggravati da essa stessa in maniera tacita e taciuta: l’organizzazione della governance, il problema dei concorsi per i professori e dei baroni universitari, l’annosa questione dei ricercatori precari e la loro ricattabilità e i rischi che corrono gli studenti.

L'intervento di Franceschini: la lingua ferisce più della spada


     Chiudo con l’arringa pronunciata dall’On. Dario Franceschini (Partito Democratico) che, al di là dei toni di rimprovero, fornisce interessanti dati e prove sulle contraddizioni economiche della riforma e dei governi Berlusconi anche in altre questioni passate, affronta il tema dei tagli finanziari così come essi sono stati attuati da questo governo e cita, a mio avviso lodevolmente, il peso e la legittimità delle manifestazioni studentesche che invece sono state osteggiate dal Presidente del Consiglio Berlusconi quando disse che i veri studenti dovrebbero stare a casa a studiare invece che in piazza a manifestare.

     Il disegno di legge è stato approvato definitivamente il 23 dicembre 2010. Non appena sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, assumerà valore di legge a tutti gli effetti.
               
Oggi che è Natale ho riscritto una nuova lettera a Babbo Natale:

Caro Babbo Natale,
per quest’anno vorrei un nuovo Ministro dell’Istruzione.
Quello che avevo prima non funziona più.


«L’arte a la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.»
(Costituzione, articolo 33, comma 1)


 Buon Natale a tutti voi!

sabato 11 dicembre 2010

Scripta manent, n. 1 - Come nasce il poeta

In questo primo numero della rubrica Scripta manent, dedicata ai passi scelti dal mondo della letteratura, voglio proporre uno stralcio tratto dal brevissimo epistolario di Rainer Maria Rilke intitolato Lettere a un giovane poeta, in cui l’autore, con la scusa della corrispondenza epistolare con un suo ammiratore (il “giovane poeta” del titolo, appunto), dispensa consigli preziosissimi che, se all’inizio sono legati alla necessità di suggerire i criteri di una scrittura onesta, si dilatano fin da subito alla sfera della vita dell’uomo in generale e diventano veri e propri testamenti spirituali che toccano (e guidano!) la coscienza del lettore, insegnandogli ad apprezzare tutto quello che serve per vivere una vita consapevole, prima ancora che una scrittura consapevole. Il seguente passo è tratto proprio dalla prima lettera.

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Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi.
     […] Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. S’interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affermare con un semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione, le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è.

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta

venerdì 19 novembre 2010

Le bugie hanno le pupille dilatate

         Secondo un noto proverbio, le bugie hanno le gambe corte: il che, fuori di metafora, significa che le menzogne “non vanno lontano”, nel senso che prima o poi vengono scoperte. Ma perché aspettare che la verità venga a galla? In molti casi è possibile evitare questa lunga attesa e capire se siamo di fronte a una bugia proprio mentre essa viene detta: infatti, come molti sapranno, esistono diversi segnali involontari del corpo che possono essere considerati, dietro una corretta interpretazione, come indizi del fatto che qualcuno sta mentendo: si va dalla modificazione della frequenza respiratoria all’aumento della sudorazione, al rossore in volto, alla mimica degli arti o a quella del viso, alla maggiore vistosità della deglutizione e perfino ad alcune frasi tipiche che si usano per dissimulare… e la lista potrebbe continuare! Inoltre numerosi e dettagliati sarebbero i discorsi che si dovrebbero fare per spiegare come fare a captare questi segnali rivelatori, dove cercarli, come interpretarli, ovvero come fare a capire se sono effettivamente indizio di quello che stiamo cercando o se invece sono indotti da altre cause… Tuttavia è possibile dire, con una certa generalità, che una delle spie esteriori più frequenti che indicano la presenza di una frottola è la dilatazione della pupilla.
               
Due parole sulla pupilla
La pupilla è quel piccolo foro nero che tutti abbiamo al centro dell’iride (l’iride è la parte che dà il colore ai nostri occhi): sostanzialmente, quindi, la pupilla è un buco. Un buco che ha una funzione banalissima: far entrare la luce, senza la quale non potremmo percepire il mondo circostante. Infatti, quando noi “vediamo” gli oggetti, in realtà stiamo ricevendo la luce che essi emettono, la quale arriva dentro al nostro occhio, sulla parete posteriore del bulbo oculare, una zona chiamata retina, entrando proprio attraverso la pupilla, che è quindi la porta di ingresso dell’occhio. Una volta che la luce ha colpito la retina, sarà il cervello a interpretare le informazioni luminose per darci la percezione dell’immagine così come noi siamo coscienti di vederla (ovvero: noi vediamo col cervello, non con gli occhi!). Ciò che dobbiamo sottolineare è che la pupilla è capace di cambiare le sue dimensioni: essa può dilatarsi, cioè può aumentare le sue dimensioni diventando un buco più largo (e in questo caso il fenomeno si chiama midriasi), oppure può restringersi, cioè può diminuire le sue dimensioni per diventare un buco più stretto (fenomeno detto miosi). La dilatazione o il restringimento della pupilla avviene sempre grazie ad alcuni piccoli muscoletti che “tirano” i bordi della pupilla lontano dal suo centro geometrico (per dilatarla) oppure che si “stringono” attorno al perimetro della pupilla (per restringerla): questi muscoli sono i muscoli intrinseci dell’occhio.
               
Intensità luminosa e pupilla
Ora viene il bello. Il fatto che la pupilla cambi le sue dimensioni non è un evento casuale, bensì si tratta fondamentalmente di una risposta a due tipi particolari di stimoli.
Diverso modo con cui una pupilla di gatto
reagisce all'intensità luminosa: pupilla in
miosi (in alto) in risposta a eccesso di luce
e pupilla in midriasi (in basso) in risposta a
scarsità di luce.
                Il primo tipo di stimolo che determina il cambiamento delle dimensioni pupillari è la presenza di luce nell’ambiente circostante. Per spiegare questo effetto potete pensare alle pupille dei gatti, che cambiano la loro forma a seconda che sia giorno (cioè in presenza di luce) o notte (ovvero in scarsità di luce): nel primo caso i gatti hanno pupille strette, assottigliate e filiformi, mentre nel secondo saranno più aperte e rotonde. Nel nostro caso invece, la forma della pupilla resta sempre uguale (un cerchio), ma ciò che cambia è il suo diametro.
Ma perché avviene una cosa del genere? Il motivo è facilmente intuibile. Quando la luce è poca, l’occhio fa fatica a catturare la luce, poiché essa è più rara: per risposta, la pupilla si apre (midriasi) per far entrare quanta più luce possibile; in questo modo rimediamo al buio e possiamo continuare a tenere sotto controllo l’ambiente circostante (perché noi siamo animali molto visivi, cioè basiamo sul vedere una grandissima parte della nostra vita di relazione all’ambiente, laddove invece molti altri animali usano altri sensi: la talpa, per esempio, è una mezza ciecata, perché vive preferenzialmente sotto terra e quindi la vista non le serve molto).
Pensiamo invece al caso inverso, ovvero un ambiente con un eccesso di luce, come succede al sospettato che viene portato alla stazione di polizia nei vecchi film polizieschi di qualche decennio fa: in quel caso, per metterlo in soggezione, gli si sparava una forte luce in faccia e gli si faceva l’interrogatorio. Cosa succedeva in quel momento? L’occhio si ritrovava investito improvvisamente di una quantità di luce molto superiore al solito, talmente superiore da provocare perfino dolore (e questo è il motivo per cui il sospettato chiudeva le palpebre e volgeva il viso su un lato: riflesso che serve a proteggere l’occhio). Si potrebbe pensare erroneamente che la forte presenza di luce permetta una visione migliore: in realtà non è così, poiché l’eccesso di luce abbaglia, esattamente come quando da piccoli abbiamo provato a guardare il sole. In questo caso, quindi, la pupilla si restringe (miosi) per permettere l’ingresso della giusta quantità di luce, che deve far vedere, ma senza abbagliare.

Stati emotivi e pupilla
Si è detto che la pupilla risponde ai cambiamenti di luce dell’ambiente. Ma questo è solo uno dei fattori che influenzano le sue dimensioni. L’altro motivo per cui una pupilla si dilata o si restringe è che essa risponde a precisi stati emotivi. La paura, l’innamoramento, l’eccitazione sessuale, la rabbia sono tutte condizioni emotive che influiscono sulla modificazione della pupilla. Gli stati emotivi, infatti, possono essere definiti, con un termine tecnico che vi prego di non confondere col suo significato quotidiano, come degli stress. Per stress intendo qui una qualunque condizione che metta il nostro organismo in allarme per qualcosa, sia bella che brutta, una qualunque situazione che stimoli fortemente il corpo. Per un cervo una situazione di stress potrebbe essere quella di accorgersi di essere cacciato da un lupo, ma situazione di stress è anche quella che il lupo vive mentre sta attento a non farsi scoprire dal cervo. Gli esseri umani possono vivere situazioni di stress più complesse (anche nel senso di simboliche) e meno legate alle esigenze di vita o ai bisogni primari, e sono appunto i sentimenti e gli stati emotivi. Pensateci: innamorarsi è una situazione di stress, nel senso che mobilità molte facoltà del nostro corpo; così come la rabbia è uno stress, perché il corpo si sente chiamato a reagire a una minaccia; anche sapere di dover sostenere un colloquio di lavoro è una situazione di stress in quanto in quel caso si deve essere reattivi e convincenti… Quindi possiamo chiamare stress qualunque situazione in cui siamo chiamati a dare una risposta efficace del nostro organismo per raggiungere un obiettivo urgente. In tutti quei casi la pupilla subisce modificazioni.

Bugie e pupilla
E veniamo finalmente alla spiegazione del fenomeno: cosa c’entra tutto questo con le bugie? Ebbene, le bugie rientrano nella definizione di situazione di stress, poiché quando si mente si deve stare attenti a non farsi scoprire. Questa consapevolezza mette “in allarme” il nostro organismo, il quale si organizza per fornire una risposta più adeguata possibile, al fine di non far capire all’interlocutore che è vittima di una menzogna. In quel momento dobbiamo “difenderci” nei confronti di un avversario (il tizio che vogliamo intortare) ed è proprio questo istinto di autodifesa che mette in moto il meccanismo pupillare. Ma perché la consapevolezza di difendersi richiede la dilatazione della pupilla? Il motivo è legato all’evoluzione naturale: infatti, in natura gli animali, e quindi anche noi uomini quando vivevamo allo stato di natura, migliaia e migliaia di anni fa, devono fare due cose per sopravvivere: lottare o fuggire. La sopravvivenza allo stato di natura si basa sempre e solo su queste due uniche eventualità. O si combatte (per cacciare la preda o per difendersi corpo a corpo dal predatore), oppure si scappa (sia per inseguire una preda sia per sfuggire a un predatore): questa regola valeva anche per noi quando eravamo agli inizi della nostra storia evolutiva di animali e fu proprio in quei tempi che elaborammo e selezionammo dei riflessi che ci permettessero di lottare o fuggire al meglio. Infatti, in entrambi i casi il corpo doveva essere pronto ad affrontare la situazione e, tra le tante cose che esso faceva, la pupilla si dilatava per permettere alla luce di entrare e farci avere una visione migliore possibile dell’ambiente circostante: con questo meccanismo un animale riesce a controllare meglio lo spazio attorno a sé e può usarlo, per esempio, per nascondersi, per arrampicarsi, per trovare utensili da usare, per saltare… tutte cose che in un momento di lotta o di fuga sono importantissime per garantire la sopravvivenza. La dilatazione della pupilla in quei casi era un modo che il corpo aveva di dire: «Sono in una situazione di pericolo: devo catturare meglio la luce per guardare meglio dove andare, altrimenti muoio».
Col tempo il concetto di “sopravvivenza all’ambiente” è cambiata per noi, perché non viviamo più allo stato naturale, quindi i nostri stress sono diversi da quelli degli altri animali, nel senso che i nostri si attivano in situazioni diverse. Ma restano comunque degli stress! Perciò in loro presenza si mettono in moto quegli stessi meccanismi che usavamo migliaia di anni fa per sopravvivere. Tra questi c’è anche quello della midriasi pupillare: quando mentiamo, viviamo una situazione di stress che ci allarma e che percepiamo come un “pericolo” dal quale difenderci e, anche se non dobbiamo instaurare una risposta del tipo lotta o fuga, tuttavia il semplice fatto di essere tesi fa “ricordare” al nostro corpo le prime situazioni in cui eravamo in pericolo e lo fa reagire con gli stessi meccanismi, tra cui la pupilla che si dilata.

Concludendo…
In sostanza, quindi, una persona che mente tende a dilatare la sua pupilla e questa è una risposta involontaria. Perciò, in alcuni casi il fenomeno di midriasi pupillare può fungere da indizio per sapere se chi ci parla ci dice balle oppure no. Ma fate attenzione: come dicevo all’inizio, questo segnale non va solo riconosciuto, ma anche interpretato. Ovvero, non è detto che ogni volta che si ha una dilatazione della pupilla si può dire che è in corso una frottola, poiché, come abbiamo visto, anche la presenza di luce condiziona questo fenomeno. Se parlate con una persona in un ambiente poco illuminato le sue pupille si dilateranno, ma in quel caso il motivo sarà che i suoi occhi stanno catturando luce dall’ambiente per vedere meglio.
E poi occorre anche una certa sensibilità per riuscire proprio a notare una dilatazione pupillare. È una capacità che non tutti hanno, soprattutto perché in genere la pupilla si dilata di poco e per poco tempo. Senza contare il fatto che, se anche si riesce ad apprezzare questo cambiamento, esso deve essere letto in una cornice di altre reazioni involontarie che accompagnano la reazione principale allo stress, come la postura, il tono di voce, la direzione in cui si guarda… Non ultimo motivo, si deve anche tener presente l'eventuale assunzione di farmaci e/o droghe che possono provocare questo effetto. Sì, non è una cosa che possono fare tutti, però chi ci riesce ha un bel vantaggio, no? Del resto la Natura è sempre stata chiara: sopravvivono solo i più adatti (nel nostro caso: i meglio informati)!

Una considerazione finale
Voglio chiudere con una breve considerazione che dovrebbe smentire dei luoghi comuni e dei pregiudizi. Tutti riconosciamo la sincerità come un valore, poiché sappiamo che mentire è una cosa moralmente sbagliata. In verità, sebbene sia indubbio che in certe circostanze la sincerità sia un giusto dovere (come quando si testimonia a un processo, oppure quando si dialoga con il proprio partner, o quando ci si confida col proprio psicanalista…), tuttavia ci sono altrettanti aspetti della nostra vita di relazione in cui la bugia – vi parrà paradossale – è necessaria! Avete capito bene: mentire ha un suo ruolo preciso nelle nostre relazioni sociali. Pensate a vostro figlio di 5 anni che vi mostra un suo disegno: vi chiede se quel disegno vi sembri bello. È ovvio che voi risponderete di sì, anche se il bambino è tutt’altro che un ritrattista esperto! È con casi simili a questo che noi strutturiamo il nostro mondo sociale, che riusciamo a instaurare relazioni con gli altri e in certe dinamiche occorre giocare a questo gioco. E vi dirò di più: la bugia ha una precisa funzione anche per il nostro rapporto con noi stessi: quante volte ci “proteggiamo” da un’amara verità dicendoci che le cose stanno in un certo modo, ma magari non è così? Quante volte riformuliamo la constatazione di un’esperienza in modo da autoconvincerci che non siamo in pericolo o che non abbiamo fatto nulla di male, anche se questo non è vero? Non a caso i bambini imparano a mentire presto e questo è indice del fatto che la menzogna ha una chiara importanza a livello evolutivo e relazionale. Ma questo è un altro discorso.
          Perciò sarebbe sbagliato parlare della bugia solo da un punto di vista morale, la quale, ripeto, pure deve essere presente, ma solo relativamente ad alcuni aspetti della vita e non ad altri.

sabato 6 novembre 2010

Scavi di Pompei: crolla la “Domus dei Gladiatori”

L’alba di questo 6 novembre ha rappresentato un duro risveglio per gli Scavi archeologici della città di Pompei. Risale infatti alle prime ore della mattina il crollo della cosiddetta “Domus dei Gladiatori”, uno degli edifici più conosciuti e più recenti dell’antica Pompei.
A denunciare l’accaduto sono stati i custodi degli Scavi archeologici, che hanno rinvenuto quello che ora è non più che un cumulo di macerie alle ore 7:30, appena recatisi al lavoro. Dove sorgeva la caserma-deposito dei giovani gladiatori pompeiani ora si può infatti ammirare solo un ammasso di pietre crollate. La “Domus dei Gladiatori”, il cui nome vero era Schola Armaturarum Juventis Pompeiani, sarebbe crollata proprio all’alba, verso le ore 6, quando ancora nessuno, né custodi, né turisti, animava il traffico umano che si osserva di consueto nel sistema capillare delle vie e delle stradine della Pompei antica. Una fortunata coincidenza, poiché questo ha scongiurato grossi rischi per i turisti in transito.
La Schola si affacciava infatti proprio su Via dell’abbondanza, la lunga strada principale che taglia letteralmente in due il sito archeologico lungo tutta la sua estensione e che rappresenta anche una delle strade maggiormente percorse dai turisti, poiché dà accesso a un gran numero di strutture. L’edificio, secondo quanto riportato dallo studio degli archeologi, era adibito principalmente ad armeria, a deposito delle armi che usavano i gladiatori, ma avrebbe funto anche come caserma-palestra dove i lottatori dell’arena si allenavano (così come suggerisce il nome Schola); non era, inoltre, un edificio visitabile all’interno, ma si potevano ammirare dall’esterno i numerosi affreschi, tutti testimoni del carattere militare della costruzione.
La sovrintendenza ha deciso di chiudere l’ingresso agli Scavi ai giornalisti e la zona del crollo è stata transennata per compiere le necessarie analisi e gli accertamenti, così che per i turisti è stata prevista una deviazione del percorso abituale all’altezza della cosiddetta “Casa dei casti amanti”.
La Schola Armaturarum Juventis Pompeiani prima e
dopo il suo crollo.
Ci si è subito interrogati sulle cause del danno. È bene dire che un’analisi precisa e definitiva non è stata ancora compiuta, tuttavia si ritiene per la maggiore che possano essere due le cause possibili. A provocare il crollo potrebbero infatti essere state le copiose infiltrazioni d’acqua delle piogge abbondanti degli ultimi giorni, ma c’è anche chi pensa alla scelta errata dei materiali di ristrutturazione. La Schola infatti aveva subìto precedentemente dei danni a causa dei bombardamenti risalenti alla seconda guerra mondiale: in quell’occasione crollò il tetto, che fu successivamente ricostruito, sulle mura antiche, con un materiale che potrebbe essersi rivelato troppo pesante, al punto da causare il cedimento della struttura nel tempo.
Il sindaco D’Alessio si è pronunciato a tal proposito e ha parlato della “Domus dei Gladiatori” come di un edificio in attesa di ristrutturazione da ormai molto tempo. Agli occhi della direzione, quindi, non era sfuggita l’urgenza di un intervento. Ma adesso è troppo tardi: questa piccola, importante finestra sul mondo dei nostri avi è scomparsa per sempre. Ed è curioso che un edificio costruito duemila anni fa abbia resistito tutto questo tempo e sia poi crollato per cause che potrebbero dipendere da una ristrutturazione grossolana o tardiva.
L’evento rappresenta un vero e proprio colpo per il patrimonio culturale non solo della città, ma anche per il mondo, e per almeno due motivi: in primis la Schola rappresenta uno degli ultimi fotogrammi della vita dei nostri antenati prima che l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. seppellisse la città e quindi era uno degli oggetti di studio più attendibili e fedeli per la ricostruzione storica degli scenari dell’epoca romana; in secondo luogo gli stessi Scavi di Pompei nel loro complesso rappresentano ancora oggi forse il sito archeologico più amato e apprezzato da storici, archeologi e turisti per lo studio dell’antichità, vista l’enorme estensione della zona e l’ottimo stato di conservazione delle strutture, che abbracciano veramente ogni aspetto della vita dei pompeiani di duemila anni fa.
Già quest’estate era sorta una polemica per la ristrutturazione del Teatro Grande, che è stato sede di grandi spettacoli di musica sinfonica, di danza e balletto. Il crollo della “Domus dei Gladiatori” è quindi solo l’ennesimo caso di cronaca legato a uno dei maggior punti di forza di Pompei: tutti sanno infatti molto bene che il turismo archeologico è una delle maggiori fonti per l’economia della città (e anche per la sua fama nel mondo). Chi frequenta gli Scavi si è reso conto fin da subito che in essi si può incontrare davvero mezzo mondo: giapponesi, inglesi, americani, francesi, tedeschi… migliaia di turisti al giorno che compiono centinaia di chilometri per ammirare questo che è uno dei motivi di orgoglio più grandi per questa città e che, già solo in quanto tale, dovrebbe essere tutelato e curato con la massima premura e, soprattutto, il massimo rispetto in ogni istante.

sabato 30 ottobre 2010

Chi ha paura della libertà?

     Erich Fromm è in assoluto uno dei miei autori preferiti. Tecnicamente è uno scienziato, perché è un sociologo e psicologo psicanalista di stampo freudiano, ma del vuoto e freddo scienziato non ha nulla! A sentirlo parlare, sembrerebbe piuttosto un filosofo! Le sue tesi sull’Uomo e sulla società sono tra le più fini ed eleganti, oltre che tra le più attendibili: i suoi messaggi sono pieni di umanesimo, di inni che rievocano e reclamano la parte più nobile di noi proprio in quanto creature viventi.
     Ho deciso di pubblicare il video di questa breve intervista fattagli 10 giorni prima della sua morte, avvenuta il 18 marzo 1980, perché in essa esprime brevemente un concetto che rappresenta la tesi di un suo libro intitolato Fuga dalla libertà (titolo originale: Escape from freedom), un concetto che mi spiazza per la sua chiarezza e la sua semplicità disarmanti! I tedeschi, in effetti, hanno una precisione e una puntualità nel fare le cose che è celeberrima in ogni campo: immaginate cosa viene fuori quando un tedesco si mette ad analizzare un tema come il rapporto che l’uomo ha con la sua libertà! Vi lancio una sfida: guardate il video e ditemi se non restate piacevolmente inebriati dalla verità che vi verrà raccontata!
     Vielen Dank, Herr Fromm!

 

domenica 24 ottobre 2010

«Sapere audeo», ovvero: come nasce questo blog

     Nel non più di tanto lontano 1784, un giornale mensile di Berlino, il Berlinische Monatsschrift, lanciava una sorta di guanto di sfida agli intellettuali dell’epoca attraverso una domanda: Was ist Aufklärung?, ovvero Che cos’è l’Illuminismo? Sebbene, infatti, l’Età dei Lumi avesse ormai abbondantemente permeato le menti degli intellettuali europei, tuttavia si avvertiva l’esigenza di definire con precisione i termini di questo meraviglioso fenomeno di risveglio razionale dell’uomo.
     Tra le tante brillanti menti che s’interessarono alla cosa, un professore prussiano, metodico, riservato e che praticamente non si mosse mai dal suo paese di Köningsberg, raccolse la sfida e, il 5 dicembre dello stesso anno, pubblicò sul Berlinische Monatsschrift un articolo intitolato Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cioè Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?. Il suo nome era Immanuel Kant.
     In genere solo chi ha studiato Filosofia conosce questo personaggio e l’enorme portata del suo pensiero. Per tutti quelli che invece non lo conoscono, basti sapere che è ricordato come “il filosofo principe dell’Illuminismo”: questo professore, infatti, a dispetto dell’estrema routine che caratterizzò la sua vita, riuscì a concepire un nuovo modo di pensare che ha tutte le caratteristiche del rivoluzionario e che, proprio in quanto rivoluzionario, ha cambiato il modo di vedere le cose di noi uomini contemporanei. Ma non parleremo qui del suo sistema filosofico. Piuttosto ci interessa sapere cosa scrisse nel suo articolo, almeno nelle prime righe:
               
     Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità in cui si è messo da solo. Minorità è l’incapacità di usare il proprio intelletto senza la guida di un altro. Questa minorità è da imputare all’uomo stesso quando la causa non dipende da difetto di intelligenza, bensì dalla mancanza di decisione e di coraggio di usare il proprio intelletto senza la guida di un altro. «Sapere aude! Abbi il coraggio di usare la tua propria intelligenza!» è quindi il motto dell’Illuminismo.

     Ora, quando lessi per la prima volta questo articolo al Liceo, spalancai gli occhi come si fa quando si è colpiti da un’intuizione lampante. Questo motto, come lo chiama Kant, e che io però definirei piuttosto un monito, parla di «coraggio» di usare l’intelletto. E non a caso il motto che Kant attribuisce all’Illuminismo riprende quell’esortazione latina che dice «Sapere aude!», dove aude è un verbo all’imperativo e significa osa e sapere qui è usato nel senso di usare giudizio, avere senno, avere conoscenza, quindi «Osa conoscere». Ma perché? – mi dicevo – Occorre forse coraggio per usare l’intelligenza? Si deve “osare”, come se fosse qualcosa di difficile? Mi sarei aspettato che si parlasse di prudenza, di ponderazione, di mancanza di pregiudizi, ma non di coraggio. Il coraggio serve quando si ha paura di qualcosa. E perché mai l’uomo dovrebbe aver paura di usare l’intelletto? Cosa potrebbe mai spaventarlo? Neanche il tempo di finire di pormi questo quesito, che subito il professore mi rispose:

     La pigrizia e la viltà sono le cause per cui un così grande numero di uomini, dopo che la natura li ha da un pezzo dichiarati liberi dal controllo da parte di estranei (naturaliter majorennes), restano tuttavia volentieri per tutta la vita minorenni [nel senso di succubi]; e [sono le cause] per cui ad altri riesce così facile il dichiararsene i tutori. È così comodo essere minorenne. Se io ho un libro che ha dell’intelletto per me, un prete che ha coscienza per me, un medico che giudica del regime per me e così via, io non ho più alcuno sforzo da fare.

     Non mi sentii di dargli torto. Mio Dio, ma pensiamo un attimo a quanto sia vero: noi nasciamo con a disposizione dei mezzi per vivere in maniera libera, di cui uno dei più importanti è appunto l’intelletto. La natura ci fornisce questi strumenti e noi siamo, appunto, “autonomi per natura” o, con le parole del filosofo, «naturaliter majorennes». Eppure, piuttosto che impegnarci a usare questo intelletto per godere di tutti i vantaggi che può darci, preferiamo avere dei «tutori», ovvero delle persone che pensino per noi, perché, in fin dei conti, «è così comodo essere minorenne». Ovviamente qui minorenne non vuol dire “minore di età”, ma significa “dipendente dall’autorità di altri”.
     Quindi, secondo Kant, noi abbiamo una doppia colpa: la prima è quella di essere pigri perché non vogliamo compiere il bellissimo sforzo di usare una facoltà che è nostra per natura; la seconda è invece la viltà. Noi siamo vili, cioè codardi. Perché mai? Perché abbiamo paura di cambiare, anche se questo ci porta a uno stato migliore. Infatti, spiega Kant, al mondo ci sono solo pochi uomini che usano la loro intelligenza e tra questi la maggior parte approfitta di chi invece non la usa (sono quelli che nella traduzione sono chiamati tutori): essi hanno tutto l’interesse a far rimanere nell’ignoranza il resto degli uomini, poiché traggono da questa ignoranza vantaggi enormi. Ci fanno crescere con l’idea che dobbiamo dar loro il permesso di pensare e – soprattutto – decidere al posto nostro, ci convincono che sia giusto delegare a loro qualsiasi scelta che riguardi i nostri interessi. Perché affannarsi tanto a spappolarsi il cervello quando puoi farlo fare a qualcun altro al posto tuo? Il guaio è proprio che questi tutori a cui diamo le nostre deleghe non decidono quasi mai nel nostro interesse e per il nostro bene, bensì approfittano di questo loro potere per imporci delle decisioni che non ci tutelano, anzi: queste scelte che essi fanno sacrificano noi per i loro vantaggi (quasi mai giusti o onesti). E il motivo per cui permettiamo che questo accada è che siamo, appunto, vili, cioè abbiamo paura di rimboccarci le maniche, temiamo lo sforzo, siamo spaventati dall’eventualità di sbagliare (perché l'errore, pur essendo un elemento essenziale dell’apprendimento, è tuttavia un’esperienza sgradevole, ma è un bene che sia così, altrimenti lo ripeteremmo sempre). E allora ecco che, piuttosto che informarci su chi si candida alle elezioni per sapere se abbia i requisiti, se abbia le competenze, o se abbia un passato non proprio limpido, diamo il nostro voto al “politico più simpatico” e ci diciamo che abbiamo fatto bene, basta che se la sbrighi lui; oppure ubbidiamo troppo ciecamente ai dettami di una religione solo perché è la nostra religione e non ci chiediamo quanto di quello che i religiosi ci dicono sia retaggio del vero messaggio di Cristo (o di qualunque altro profeta) e quanto invece sia un’invenzione della Chiesa creata ad arte per raccontare una storia affascinante che attiri più fedeli possibile, perché a noi basta avere qualcosa in cui credere, non importa se l’immagine di questa eventuale divinità sia stata mistificata dalle alte sfere, dalle nebbie del tempo o dalle credenze; allo stesso modo non ci degnamo di fermarci due minuti a riflettere che il reality show a cui stiamo assistendo è qualcosa di sadico e diseducativo, progettato apposta per farci essere passivi consumatori di audience, senza però ricevere da esso nulla in cambio se non messaggi subliminali che incitano all'aggressività, alla maleducazione, al sadismo, alla volgarità... con i nostri figli che, in tutto questo, crescono con l’idea che quella sia la realtà normale e universalmente accettata e che sia quindi da imitare in tutto e per tutto...:

     È quindi cosa difficile per ogni uomo uscire da questa dipendenza diventata quasi in lui un fatto naturale. Anzi, essa gli piace ed è attualmente davvero incapace di servirsi del suo intelletto, perché non vi è mai stato abituato. Le regole e le formule, questi strumenti meccanici dell'uso razionale o piuttosto dell’abuso dei suoi doni naturali, sono le catene che lo tengono in questa perpetua dipendenza. Chi le gettasse lungi da sé, non farebbe anche sopra il più piccolo fosso che un salto malsicuro, perché non sarebbe avvezzo a liberi movimenti. Pochi sono perciò quelli che sono riusciti, per una autoeducazione del proprio spirito, a liberarsi dalla dipendenza e tuttavia ad acquistare un incedere sicuro.

     E qui quasi mi scappava l’applauso. Questo concetto è di una modernità sconcertante! Tutto, nel mondo attorno a noi, ci porta a non riflettere, a non usare quel dono così alto che la natura ci ha fornito. Coloro che hanno in mano le redini delle dinamiche sociali devono far sì che noi sospendiamo la nostra capacità di giudizio, così ci possono usare come strumenti per assumere potere e denaro, noi dobbiamo avere la sensazione di “dipendere” da loro anche nelle più banali decisioni. E siamo talmente assuefatti da questa dipendenza, che abbiamo paura di cambiare. Kant usa proprio la metafora della deambulazione, che a mio parere è molto esplicativa: chi non ha mai camminato e non sa come si fa, non si muove in maniera sciolta se inizia all’improvviso: ha paura di cadere, di inciampare, ha paura di farsi male. Per scappare da questo vortice occorre autoeducarsi, ovvero prendere quel coraggio mancante di cui si diceva sopra e usarlo per riappropriarci dell’intelletto che abbiamo dato ad altri, a quei tutori, per imparare a impiegarlo noi, al fine di prenderci cura di noi stessi e farci diventare le belle persone che vorremmo essere.
     Ora, l’obiettivo che gli Illuministi si proponevano era proprio questo: far uscire l’uomo da questa condizione di servilismo volontaria in cui era rimasto per secoli. Badate bene: volontaria. Perché l’uomo sceglie di restare in questa condizione, in quanto apparentemente gli fa comodo. In questo dimostriamo di essere la sola specie animale ad andare contro l’istinto di autoconservazione, poiché, piuttosto che compiere azioni che ci preservino (anche interiormente), preferiamo abbandonarci alla fiacchezza e alla pusillanimità e subire gli effetti nefasti di questo modo che il mondo ha di girare. E dirò di più: pur di non ammettere che stiamo sbagliando, pur di non sentire il peso del nostro errore, ci raccontiamo la bugia secondo cui, in fin dei conti, non è poi una cosa così brutta.

     Queste erano all’epoca, e ancora in buona parte oggi, le riflessioni che accompagnavano il mio studio di Kant al Liceo. Ricordo che mi piacque così tanto quel messaggio, che feci di quel motto il mio motto. Mi appariva ancora più urgente e imprescindibile il fatto che fosse inammissibile sospendere il mio giudizio sulle cose, poiché il rischio di cadere in certe trappole è davvero altissimo. D’altronde, è anche bello in sé il crescere in maniera coscienziosa, no? Non è solo un obbligo morale: è e dev’essere anche un piacere. Piacere che è indice del fatto che ci si ama e ci si rispetta.
     E poiché, di riflessioni, ne faccio tantissime, e giacché amo scrivere, per apodittica conseguenza mi è parso già da tempo opportuno annotare queste mie varie riflessioni su un blog. C'è tanto di cui mi piace scrivere! Ora, voi capirete da soli che, al momento di sceglierne il titolo, una cosa era assolutamente doverosa: ispirarmi a quel motto. Ispirarmici, ma non copiarlo, perché l’esortazione originale recita «Sapere aude», cioè «Abbi il coraggio di usare la tua intelligenza», mentre il titolo che ho scelto io è leggermente diverso: Sapere audeo, ovvero «Ho il coraggio di servirmi della mia intelligenza». Una connotazione a carattere più strettamente individuale, che però, badate, non ha in sé alcuna presunzione, nel senso che l’io sottinteso in quell’espressione non è “il mio” io, ma il singolo io di tutti noi, che deve essere bello, forte e buono per se stesso, prima ancora che per gli altri, che è appunto ciò che mi propongo di fare per me stesso attraverso le mie riflessioni.
     E dunque, buona lettura a te, lettore, chiunque tu sia.


Immanuel Kant