venerdì 27 maggio 2011

Scripta manent, n. 7 - «Vindica te tibi»

     Le riflessioni sul tempo sono un topos nella letteratura, perché esso non smette mai di essere una questione scottante. Vi propongo a tal proposito la prima delle Lettere morali a Lucilio (Epistulae morales ad Lucilium) di Lucio Anneo Seneca: essa è una bella riflessione sull’importanza di usare bene il tempo, una cosa molto importante per i giovani, che, di tempo, ne hanno molto davanti.
     Come di consueto, quella che leggerete è una mia traduzione, quindi non posso non accompagnare ad essa anche il testo originale, poiché sono sempre convinto che ogni atto di traduzione sia un azzardo.

gdfabech

Seneca saluta il suo Lucilio

     Fa’ così, mio Lucilio: rivendicati a te stesso, e quel tempo che fino ad ora ti veniva portato via con la forza o che ti veniva sottratto con l’inganno o che semplicemente ti sfuggiva di mano, raccoglilo e custodiscilo. Convinciti che la questione è proprio così come ti scrivo: che cioè ci sono momenti che ci vengono strappati via, altri che ci vengono sottratti subdolamente, altri che scorrono via da soli. Tuttavia la perdita di tempo peggiore è quella che avviene per trascuratezza. E, se vorrai prestare attenzione, ti dirò che gran parte della vita scivola via operando male, la maggior parte della vita non facendo un bel niente, la vita intera facendo altro da ciò che andrebbe fatto.
     Sapresti indicarmi un uomo che sappia attribuire un valore al tempo, che sappia valutare ogni singolo giorno, un uomo che si renda conto di morire quotidianamente? È in questo infatti che sbagliamo, nel guardare alla morte come a qualcosa che ci sta davanti: gran parte di essa appartiene invece già al passato; tutto quello che del nostro tempo è passato, la morte lo possiede. Fa’ dunque, mio Lucilio, ciò che scrivi di fare, tieniti strette tutte le tue ore; così avverrà che tu dipenda meno dal domani, se avrai messo mano al presente. Mentre viene rinviata, la vita passa.
     Tutte le cose, Lucilio, non ci appartengono, soltanto il tempo è veramente nostro; la natura ci ha messi in possesso di quest’unica cosa fugace e scivolosa, della quale chiunque lo voglia può privarci. E la follia dei mortali è tanto grande che essi sopportano che siano loro rinfacciate, come fossero un debito, tutte quelle cose insignificanti e di scarso valore, ma di certo rimpiazzabili, nel momento in cui le abbiano ottenute, mentre nessuno si considera essere in debito di qualcosa quando riceve del tempo, eppure questa è la sola cosa che nemmeno una persona riconoscente può restituire.
     Forse ti starai chiedendo cosa faccia io che ti insegno queste cose. Lo confesserò apertamente: ciò che avviene a quell’uomo che vive nel lusso ma che usa accortezza, cioè tengo ben presente il conto della spesa. Non posso dire di non sprecare nulla, ma dirò cosa io sprechi e perché lo sprechi e in che modo lo sprechi; renderò conto a me stesso delle ragioni della mia povertà. Ma mi accade ciò che avviene alla maggior parte di coloro che sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti li compatiscono, ma nessuno li aiuta. E quindi? Io non considero povero colui che si accontenta di ciò che gli è rimasto, per quanto poco sia. Tuttavia – lo preferisco – tu conserva le tue cose e comincerai nel momento opportuno. Infatti, come sembrava giusto ai nostri antenati, “è troppo tardi essere parsimoniosi quando ormai si è arrivati al fondo”; infatti ciò che rimane al fondo non solo è pochissimo, ma è anche la parte peggiore.

Stammi bene.


Lucio Anneo Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, I, 1



     Il testo originale scritto da Seneca:

Seneca Lucilio suo salutem

     Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus.
     Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit.
     Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.
     Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. Quid ergo est? Non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, “sera parsimonia in fundo est”; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet.

Vale.

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