lunedì 30 gennaio 2012

Latine loquimur, n. 5

     Quinto appuntamento con la rubrica Latine loquimur. Enjoy!
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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Qui pro quo
[pronuncia scolastica: qui pro quo]
[pronuncia restituita: cuì pro cuò]

    Qui pro quo significa letteralmente: “qui al posto di quo”, ma non è una cosa che riguarda i nipotini di Paperino. La locuzione oggi è usata per significare “prendere fischi per fiaschi”, quindi per indicare un malinteso, un fraintendimento. Quando per sbaglio mettiamo il sale nel caffè al posto dello zucchero (non fate quello sguardo diffidente: a me è successo una volta!), diciamo per scusarci che «è stato un qui pro quo»; oppure quando da lontano salutiamo un nostro amico e, avvicinandoci, ci rendiamo conto che non era lui, bensì un estraneo che gli somigliava, si è trattato di un qui pro quo, di uno scambio, di un errore, di un malinteso. La storia di questa espressione risale al Medioevo per indicare un errore di copia delle lettere nei manoscritti. La semplice lettera O usata al posto della I cambia molto il significato della parola: in latino, infatti, qui è il pronome relativo maschile singolare usato con funzione di soggetto e significa quindi “il quale”; mentre quo è lo stesso pronome relativo usato con una funzione logica diversa da quella di soggetto, potendo quindi significare “a causa del quale” o anche “con il quale”. Molti tendono a leggere l’espressione in maniera meno letterale, traducendo anche il significato di qui e quo in italiano, e facendo suonare quindi la locuzione come “il quale al posto del quale”, o meglio: “questo al posto di quello”. La sostanza non cambia.


Do ut des
[pronuncia scolastica: do ut des]
[pronuncia restituita: do ut des]

     Modo di dire molto famoso e diffuso nel linguaggio parlato, il do ut des è una delle locuzioni più rappresentative dell’agire umano. Ma andiamo con calma: si traduce con “io do affinché tu dia” e in una visione estrema indica il comportamento dell’egoista che non si scomoda a far favori a nessuno se non ne riceve qualcosa in cambio. Al di fuori di questa prospettiva, invece, il do ut des è semplicemente il modo di fare della civiltà umana, che si basa da sempre su scambi di favori reciproci. “Nessuno fa niente per niente”, diciamo noi in italiano per indicare la stessa cosa, ma usando una frase meno lapidaria e più cinica. Seneca scrisse addirittura un’opera su questa regola di vita sociale, i sette libri del De beneficiis (“Sui favori”) dedicati all’amico Ebuzio: nel De beneficiis Seneca analizza il complesso rapporto di scambi che caratterizza la civiltà romana, tutta improntata e fondata su rapporti di tipo clientelare in cui la gratitudine, il debito e il credito sono ciò che fa andare avanti il mondo; anche se il buon Seneca, poverino, faceva il tifo per un tipo di beneficium (“favore”) più disinteressato, che fosse mosso dal semplice piacere di donare e non dalla speranza di ricevere qualcosa in cambio. Pia illusione, gli risponderebbe il filosofo contemporaneo Jacques Derrida che, nel suo Donare il tempo. La moneta falsa analizza l’atto del dono così come ce lo siamo autorappresentato per secoli, mettendo in evidenza che esso non è e non può essere così disinteressato come crediamo, perché anche cose come la gratitudine pura e semplice, o la gioia di aver donato rappresentano per noi delle “ricompense”, che ci fanno quindi avere qualcosa “in cambio” di cui godiamo e che anzi inconsciamente cerchiamo di procurarci.
Nella lingua anglosassone il concetto del do ut des viene espresso con una locuzione simile a quella sopra descritta: quid pro quo, “questa cosa al posto di quest’altra”. Quest’ultima, però, non è una locuzione latina vera e propria, ma nasce in maniera impropria storpiando quella originale, qui pro quo, con un ovvio cambiamento del senso. Quid pro quo dice nel film Il silenzio degli innocenti (di Jonathan Demme, 1991) il tetro Hannibal Lecter, psichiatra antropofago incarcerato in un manicomio criminale, che accetta di aiutare la giovane recluta dell’FBI Clarice Starling a scovare un assassino che uccide e scuoia le donne, solo se ella in cambio gli confida aneddoti personali che lui ha il piacere di ascoltare perché la ritiene interessante.


Excusatio non petita accusatio manifesta
[pronuncia scolastica: excusàzio non petìta accusàzio manifèsta]
[pronuncia restituita: excusàtio non petìta accusàtio manifèsta]

     “Una scusa non richiesta [è] un’accusa palese”, sentenziarono i sapienti medievali, per dire che se uno ha la coscienza pulita non sente il bisogno di scusarsi; per converso, chi si scusa senza che gli venga richiesto (excusatio non petita), allora tradisce il suo senso di colpa per aver fatto qualcosa (accusatio manifesta) e, così facendo, si accusa da solo. Meno aulicamente, ma con altrettanta saggezza, oggi si dice “La prima gallina che canta ha fatto l’uovo”, o “Chi si scusa si accusa”. La frase è infarcita di una ingenua ma efficace psicologia e fornisce quindi un saggio criterio per individuare colpevoli nell’ombra. Il verbo essere è sottinteso.

2 commenti:

  1. Grazie per la spiegazione. Sei molto chiaro. Cosa rarissima ovunque a partire, ahimè, dalla scuola.

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