lunedì 30 gennaio 2012

Latine loquimur, n. 5

     Quinto appuntamento con la rubrica Latine loquimur. Enjoy!
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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Qui pro quo
[pronuncia scolastica: qui pro quo]
[pronuncia restituita: cuì pro cuò]

    Qui pro quo significa letteralmente: “qui al posto di quo”, ma non è una cosa che riguarda i nipotini di Paperino. La locuzione oggi è usata per significare “prendere fischi per fiaschi”, quindi per indicare un malinteso, un fraintendimento. Quando per sbaglio mettiamo il sale nel caffè al posto dello zucchero (non fate quello sguardo diffidente: a me è successo una volta!), diciamo per scusarci che «è stato un qui pro quo»; oppure quando da lontano salutiamo un nostro amico e, avvicinandoci, ci rendiamo conto che non era lui, bensì un estraneo che gli somigliava, si è trattato di un qui pro quo, di uno scambio, di un errore, di un malinteso. La storia di questa espressione risale al Medioevo per indicare un errore di copia delle lettere nei manoscritti. La semplice lettera O usata al posto della I cambia molto il significato della parola: in latino, infatti, qui è il pronome relativo maschile singolare usato con funzione di soggetto e significa quindi “il quale”; mentre quo è lo stesso pronome relativo usato con una funzione logica diversa da quella di soggetto, potendo quindi significare “a causa del quale” o anche “con il quale”. Molti tendono a leggere l’espressione in maniera meno letterale, traducendo anche il significato di qui e quo in italiano, e facendo suonare quindi la locuzione come “il quale al posto del quale”, o meglio: “questo al posto di quello”. La sostanza non cambia.


Do ut des
[pronuncia scolastica: do ut des]
[pronuncia restituita: do ut des]

     Modo di dire molto famoso e diffuso nel linguaggio parlato, il do ut des è una delle locuzioni più rappresentative dell’agire umano. Ma andiamo con calma: si traduce con “io do affinché tu dia” e in una visione estrema indica il comportamento dell’egoista che non si scomoda a far favori a nessuno se non ne riceve qualcosa in cambio. Al di fuori di questa prospettiva, invece, il do ut des è semplicemente il modo di fare della civiltà umana, che si basa da sempre su scambi di favori reciproci. “Nessuno fa niente per niente”, diciamo noi in italiano per indicare la stessa cosa, ma usando una frase meno lapidaria e più cinica. Seneca scrisse addirittura un’opera su questa regola di vita sociale, i sette libri del De beneficiis (“Sui favori”) dedicati all’amico Ebuzio: nel De beneficiis Seneca analizza il complesso rapporto di scambi che caratterizza la civiltà romana, tutta improntata e fondata su rapporti di tipo clientelare in cui la gratitudine, il debito e il credito sono ciò che fa andare avanti il mondo; anche se il buon Seneca, poverino, faceva il tifo per un tipo di beneficium (“favore”) più disinteressato, che fosse mosso dal semplice piacere di donare e non dalla speranza di ricevere qualcosa in cambio. Pia illusione, gli risponderebbe il filosofo contemporaneo Jacques Derrida che, nel suo Donare il tempo. La moneta falsa analizza l’atto del dono così come ce lo siamo autorappresentato per secoli, mettendo in evidenza che esso non è e non può essere così disinteressato come crediamo, perché anche cose come la gratitudine pura e semplice, o la gioia di aver donato rappresentano per noi delle “ricompense”, che ci fanno quindi avere qualcosa “in cambio” di cui godiamo e che anzi inconsciamente cerchiamo di procurarci.
Nella lingua anglosassone il concetto del do ut des viene espresso con una locuzione simile a quella sopra descritta: quid pro quo, “questa cosa al posto di quest’altra”. Quest’ultima, però, non è una locuzione latina vera e propria, ma nasce in maniera impropria storpiando quella originale, qui pro quo, con un ovvio cambiamento del senso. Quid pro quo dice nel film Il silenzio degli innocenti (di Jonathan Demme, 1991) il tetro Hannibal Lecter, psichiatra antropofago incarcerato in un manicomio criminale, che accetta di aiutare la giovane recluta dell’FBI Clarice Starling a scovare un assassino che uccide e scuoia le donne, solo se ella in cambio gli confida aneddoti personali che lui ha il piacere di ascoltare perché la ritiene interessante.


Excusatio non petita accusatio manifesta
[pronuncia scolastica: excusàzio non petìta accusàzio manifèsta]
[pronuncia restituita: excusàtio non petìta accusàtio manifèsta]

     “Una scusa non richiesta [è] un’accusa palese”, sentenziarono i sapienti medievali, per dire che se uno ha la coscienza pulita non sente il bisogno di scusarsi; per converso, chi si scusa senza che gli venga richiesto (excusatio non petita), allora tradisce il suo senso di colpa per aver fatto qualcosa (accusatio manifesta) e, così facendo, si accusa da solo. Meno aulicamente, ma con altrettanta saggezza, oggi si dice “La prima gallina che canta ha fatto l’uovo”, o “Chi si scusa si accusa”. La frase è infarcita di una ingenua ma efficace psicologia e fornisce quindi un saggio criterio per individuare colpevoli nell’ombra. Il verbo essere è sottinteso.

domenica 29 gennaio 2012

Accettare la diversità: due modelli a confronto

     Nel mondo di oggi siamo educati a non discriminare la diversità, ad accettare il diverso. Il che è cosa buona e giusta. Tuttavia esiste una grande differenza tra accettare le varie forme di diversità per convivere con esse rispettandole, ed educarci a guardare alle diversità in modo tale da farcele sembrare normali.
     Nel primo caso, infatti, stiamo prendendo atto che la diversità esiste, che è una cosa presente e che fa sentire i suoi effetti su di noi, ma che questi effetti non hanno nulla di male, al punto che è possibile convivere con l’altro e anzi, si può perfino imparare dall’altro, poiché esso è portatore di qualcosa che noi non abbiamo e che potrebbe condurre a una crescita reciproca o almeno unilaterale. In questo caso, quindi, si viene educati a guardare al diverso senza provare alcuna forma di disagio perché ci si convince che essere diversi dagli altri non implica nulla di negativo. È un po’ come quando gli uomini andavano in giro nudi perché non si vergognavano della loro nudità: in quel caso non sorge affatto il problema di nascondere o correggere qualcosa, poiché non c’è nulla che crei imbarazzo.
     Nel secondo caso, invece, la diversità provoca in chi la percepisce una forma di disagio. Non è per forza un disagio di tipo ostile, che si manifesta necessariamente in atteggiamenti di violenza ai danni del diverso, basta che sia una semplice sensazione di straniamento, di disorientamento, di fastidio anche, basta percepire quella sensazione di “non sentirsi nella normalità”. In questo modo di vedere la diversità si tenta di eliminare il disagio che si prova nei confronti del diverso, un disagio che secondo le regole sociali non è bene esprimere, almeno non esplicitamente davanti agli altri perché cozza con un principio (“il diverso va accettato”) di cui non si è capito il senso. Quando si fa così, quando si reprime il disagio, non si sta accettando la diversità, bensì si sta solo indottrinando le persone a “chiudere un occhio” sulla diversità, affinché essi la guardino in modo tale da considerarla “normale” (perfino autoconvincendosi che lo sia), perché altrimenti ci si sente fuori posto, spaesati. O, detto in altri termini, si abitua la gente a negare l’esistenza delle differenze di cui il diverso è portatore, a esorcizzare la percezione della diversità perché in fondo non ci si sa convivere. Con questo modello educativo le differenze non devono essere pensate come tali, altrimenti si avverte una stonatura con il proprio mondo, una stonatura che mette in crisi. Ma quelle differenze ci sono, altrimenti per quale ragione il diverso sarebbe diverso? Se sentiamo il bisogno di far assomigliare il diverso a noi per non sentire quel disagio, se dobbiamo smussare gli spigoli della diversità, e la deformiamo quindi nell’atto di autorappresentarcela, in modo da farla somigliare alla “nostra” normalità, allora non sappiamo accettare la diversità, ma è segno che ne abbiamo paura e, quindi, che la stiamo negando. Parliamo di un modo molto più ipocrita di interagire col diverso, che spesso sfocia nel falso buonismo o nella presunzione.

     Credo che non sia una differenza da poco, soprattutto se consideriamo le conseguenze che essa può avere nella formulazione di modelli educativi. Sono due modi di vedere e di pensare la diversità che non devono essere confusi. Tre esempi possono forse chiarire meglio le implicazioni di questa differenza: li ho messi in chiave cinico-comica, per sdrammatizzare la gravità di certi modi di pensare... e anche perché oggi mi va di fare il simpatico.

Esempio 1
- «Io amo così, in questo modo, quindi il mio è il solo modo corretto di amare: se tu mi ami in modo diverso e non fai quello che mi aspetto da te, allora per me significa che non sai amarmi.»
- «Ti hanno mai detto che l’uomo ha amato in mille modi diversi nella storia, secondo principi diversi e modalità diverse, e che ancora oggi nelle diverse culture l’amore implica differenti codici di comportamento e si basa su criteri molto dissimili? E ti hanno mai detto che quindi non esiste un paradigma universale di amore e che perciò non puoi atteggiarti a fare la Treccani dell’amore? NO? E ALLORA CHIUDI QUEL CESSO DI BOCCA, sennò ti faccio amare dei miei dobermann!»

Esempio 2
- «Oh, i bambini handicappati... Essi vanno tutelati perché sono come noi, non sono diversi!»
- «Eh, no: i bambini handicappati sono handicappati, quindi sono molto diversi da noi. Hanno diversi tipi di problemi, diversi impedimenti e diversi bisogni. La diversità c’è ed è enorme (se non mi credi te la ficco su per il culo, così senti quanto è enorme), ma questa diversità non ha motivo di essere discriminata, né sul piano umano, né sul piano morale, né sul piano legale, ed è per questo che abbiamo il dovere di tutelarli: la loro diversità non è tale da autorizzarci a fare discriminazioni, anzi, proprio nel dire che essi vanno tutelati in modo particolare “perché sono categorie più svantaggiate” stiamo appunto mettendo in evidenza questa diversità.»

Esempio 3
- «Io la penso come Voltaire: darei la vita perché anche le opinioni più inaccettabili possano essere manifestate, perché per me ogni forma di pensiero è degna di essere espressa.»
- «Io invece credo che finché esistano opinioni come quelle dei nazisti o dei leghisti, allora ci sono forme di pensiero tali che mi sento obiettivamente autorizzato a pisciarci sopra, perché esse implicano conseguenze obiettivamente dannose per il prossimo. Quindi “ogni opinione è degna di essere espressa” un paio di palle! Se facciamo parlare tutti è solo perché conoscendo le cazzate altrui possiamo imparare cosa non debba essere fatto o pensato, e non perché anche frasi come “gli extracomunitari sono parassiti” o “gli ebrei puzzano e vanno bruciati nei forni” siano frasi in sé degne di essere pronunciate o ascoltate.»

     Paradossalmente, quindi, si accetta davvero il diverso quando non sorge affatto il problema di “accettare il diverso”. Come disse Terenzio, Homo sum: nihil humani a me alienum puto: «Io sono un uomo: non considero diverso da me nulla di ciò che è umano».


Post scriptum
     Questa riflessione sull’accettazione della diversità ha carattere generale e non dev’essere confusa con questioni più particolari legate piuttosto all’integrazione del diverso in contesti nuovi. È innegabile infatti che esistano realtà la cui diversità è tale da non consentire una integrazione spontanea o almeno agevole, perché sussistono problemi di carattere pratico. Basti pensare all’integrazione degli extracomunitari islamici nei paesi occidentali: anche lì c’è un caso di diversità, ma la gente ha difficoltà ad attuare un’integrazione perché il problema del terrorismo internazionale ha sollevato questioni pratiche che disturbano il processo che dovrebbe secondo me avvenire: le stragi, gli attentati, i kamikaze, le truppe mandate in Medio Oriente sono tutte cose che ostacolano il processo sopra descritto perché hanno creato diffidenza e paura nella gente. Ma questo non mette in discussione né contraddice il criterio generale, che mi pare quello eticamente più sensato.
     Pongo l’accento su questa differenza perché l’integrazione del diverso è necessariamente subordinata all’accettazione del diverso, e le due cose sono quindi due momenti separati: non accetti accanto a te qualcuno che consideri estraneo alla tua realtà.

venerdì 27 gennaio 2012

Martone: «Se a 28 anni non hai la laurea sei sfigato». La polemica di studenti e politici. Il Governo discute la selezione ai concorsi pubblici: conterà il prestigio dell’ateneo, non più il voto di laurea

     Aveva detto che ai giovani occorre dare messaggi chiari. E il suo, di messaggio, è stato chiaro: forse un po’ troppo. Almeno troppo netto nei toni. Parliamo dell’attuale viceministro del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali Michel Martone, che qualche giorno fa, il 24 gennaio scorso, in occasione della “Giornata dell’apprendistato” organizzata dalla Regione Lazio, si è lasciato scappare un commentino che ha sollevato un polverone in tutta la rete.
     «Se a 28 anni tu non sei ancora laureato, sei uno sfigato»: questa la frase incriminata che ha fatto indignare gli studenti italiani e molti esponenti del mondo politico.


Michel Martone, attuale viceministro
del Lavoro e delle Politiche sociali.
     Nel suo discorso Martone parlava di problemi reali e innegabili, come del fatto che l’età media dei laureati italiani è molto più alta di quella europea, che esistono studenti che si compiacciono di bivaccare all’università invece di studiare… Ma il suo modo di esprimersi, a tanti altri studenti che pure a 28 anni non sono laureati, proprio non è andato giù.
     Le più ovvie obiezioni sono sorte proprio dai diretti interessati, che hanno ricordato al viceministro della Fornero le solite cose: che un paragone tra essi e i colleghi europei è insensato perché in Italia il sistema universitario è carente e morente; che gli studenti italiani devono fare i conti con la crisi economica e quindi un’alta percentuale di essi è costretta a lavorare per mantenersi gli studi, il che rallenta la carriera accademica; che l’organizzazione dei curricula accademici e della governance è talmente caotica e mal organizzata da rendere lo studio difficoltoso (ricordiamo il caso di Luca, studente romano che diede 29 esami in due anni con la media del 28.48 e a cui non permisero di laurearsi, facendolo attendere due anni a vuoto); che il fatto di essere laureati (anche prima dei 28 anni) non vuol dire niente perché non si contano più i laureati che sono invecchiati a forza di fare stage senza comunque riuscire a trovare un lavoro…
     Anche i politici si sono fatti sentire: Vendola definisce quelle di Martone «parole sprezzanti»; Fedriga, Lega Nord, invece tuona: «Martone ha offeso gli studenti che devono lavorare per mantenersi e per questo non riescono a laurearsi nei termini». E l’appoggio agli “sfigati” continua a essere totale da tutti gli esponenti politici. Solo UDC e la Santanché spezzano una lancia a suo favore.

     Ma chi è questo Martone per lasciarsi scappare una tale mancanza di tatto? Dall’alto di cosa parla in questo modo alle vittime del precariato italiano? Ebbene, risulta che il vice del welfare sia il classico uomo dal curriculum in decollo. Questo giovanotto appena alle soglie dei 40, che un giornalista ha definito “maniacale promotore di se stesso”, ha un cursus honorum tutto da invidiare: nell’arco dai 20 ai 30 anni è stato laureato in Giurisprudenza, ricercatore, poi professore associato alla L.U.I.S.S., poi professore ordinario all’ateneo di Teramo, ora viceministro. Tiene un blog personale dove pubblica le sue riflessioni, pubblicizza i suoi libri e i suoi articoli, scritti su riviste come Il Riformista, Il Messaggero, Il Sole 24 ore o Aspenia. Si definisce un grafomane interessato alla politica. Già membro in passato di incarichi di rilievo in varie commissioni.
     Dall’altra parte, però (e qui si resta perplessi), vanta di essere membro della Fondazione Craxi (per la quale ha tenuto anche un discorso in occasione dei dieci anni dalla morte dell’“esiliato” Bettino); inoltre è figlio del giudice Antonio Martone, che è stato presidente dell’Authority scioperi e frequentatore del tristemente noto Cesare Previti (interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e con una condanna al processo Lodo Mondadori), il che gli ha fatto guadagnare il marchio di raccomandato; inoltre è stato collaboratore di Renato Brunetta (quello dei fannulloni: un tema proprio caro a questa cerchia), per una consulenza da 40000 euro, e di Sacconi.
     Questo solo per elencare il grosso, perché c’è veramente da perdersi nel suo curriculum.

     Dopo l’intervento troppo azzardato, in cui qualcuno ha voluto rivedere l’eco di quel famoso «Bamboccioni» con cui l’allora ministro Padoa Schioppa si rivolse ai giovani nelle commissioni di Bilancio cinque anni fa, e dopo la protesta studentesca, Martone si è visto costretto a smussare il colpo: «Sono profondamente dispiaciuto se i giovani che lavorano, intraprendono o, comunque, fanno qualcosa per la crescita del nostro paese si sono offesi. Non mi rivolgevo a loro!» scrive nel suo blog, pubblicando tanto di video con la trascrizione completa della sua dichiarazione, per mettere in evidenza il vero intento del suo intervento, che sarebbe stato quello di esortare i giovani a collaborare per la realizzazione della crescita italiana e a non dormire sui libri, e di chiamare col proprio nome un problema che è innegabilmente gravante nel sistema italiano.
     «Mi rivolgo piuttosto a tutti gli studenti che, pur vivendo a casa coi genitori e non avendo particolari problemi, si laureano “comodamente” dopo i 28 anni», precisa Martone. E aggiunge: «Dieci anni per una laurea quinquennale sono troppi.», concludendo, più umile ma comunque deciso: «prometto in futuro di essere più sobrio ma sempre sincero».

     Ora al di là della polemica in sé, che a mio avviso non è proprio una questione prioritaria di questi tempi, visto il clima in cui versa il nostro paese, credo che la frase di questo politico abbia come peggior demerito quella di essere arrivata in un contesto poco adatto. Forse qualche anno fa il lessico cool e giovanile di Martone avrebbe potuto essere simpatico, ma attualmente in Italia i problemi riguardanti gli atenei, la carenza del corpo docente (1 docente per ogni 800 studenti, mentre in Inghilterra il rapporto è 1 a 1), le lotte per i diritti allo studio e per la sottrazione dei fondi alla ricerca, il sovraffollamento negli atenei, la mancanza di guide per la scelta della facoltà, lo stallo dello sviluppo scientifico, una burocrazia paurosamente modificata dalle riforme Gelmini e questo mal vissuto problema degli studenti costretti a lavorare hanno fatto di quel termine qualcosa di decisamente fuori luogo e offensivo, e non solo per gli studenti, ma anche per i docenti e i rettori, che stavolta hanno dovuto fare fronte comune con i discenti.
     L’impressione data dal viceministro è stata quella di non conoscere la realtà che stava giudicando, peccando di classismo, superbia e superficialità. Inoltre parlare così di una categoria sociale già così spudoratamente calpestata non ha reso possibile chiudere un occhio.

     Vale la pena chiudere con un’altra notizia tutt’altro che marginale, sempre relativa ai laureati, che sarà oggetto proprio oggi di discussione al Consiglio dei Ministri, riguardo la normativa regolante il valore legale del titolo di laurea nei concorsi pubblici. Pare che la proposta del Governo sia quella autorizzare un nuovo modo di valutare i candidati ai concorsi sulla base non più del voto di laurea o del titolo di laurea acquisito, che passerebbero quindi in secondo piano, ma della qualità e del prestigio dell’università di provenienza.
     La cosa ha suscitato malcontento prima ancora di essere discussa: viene rimproverato al Governo di mortificare i criteri meritocratici che stanno alla base della scelta dei candidati. Infatti non si guarderà più all’impegno dello studente e alle sue capacità (di cui il voto dovrebbe essere simbolo), e, fatte poche eccezioni (Medicina, Ingegneria…), non sarà essenziale neanche la sua qualifica (laureati in settori anche diversissimi potrebbero concorrere per uno stesso incarico per il quale finora era richiesta una preparazione ben precisa).
     In questo modo, quindi, chi si è conquistato il “pezzo di carta” con 110 e lode all’Università di Cagliari non potrà più farsi forte di questo per agevolare la sua posizione nelle graduatorie, ricevendo un trattamento peggiore di un laureato con 75 alla Bocconi, poiché l’ateneo milanese sarebbe valutato come più prestigioso. L’indignazione si è concretizzata, tra le tante forme, nella creazione di una pagina Facebook chiamata Per un’università meritocratica.

martedì 17 gennaio 2012

Scripta manent, n. 12 - Mi piaci quando taci

     In questa lirica il poeta Pablo Neruda descrive l’esperienza dell’ascolto del silenzio della donna che ama. Al di là di ogni artificioso ossimoro, infatti, la donna cantata da Neruda riesce a comunicare moltissimo anche quando tace o, sarebbe meglio dire, il poeta ha saputo ascoltare e cogliere ciò di cui il silenzio dell’amata si permea e l’ha tradotto in versi.
     Quante volte, infatti, ci rintaniamo da soli dentro quella nostra dimensione personale, a rimuginare su ciò che ci succede, su ciò che vorremmo fare, sulle cose che temiamo o che sognamo? Me la sono figurata tante volte questa donna, magari seduta su un muretto in un silenzioso pomeriggio primaverile, intenta a guardare chissà cosa (forse il vuoto), con un’espressione pacata, le labbra semiaperte, tenendosi il viso con una mano e appoggiando l’altra su una gamba. Quella donna tace, sembra persa in un altro mondo, sembra perfino morta, per come sta impassibile. A guardarla viene voglia di entrarle nella mente e guardare i suoi pensieri. Ma non si può: tutto ciò che si può fare è ascoltare la forma esteriore del suo silenzio, vederla e anzi coglierla in quel momento di intimità così inviolabile e tuttavia così potente.
     Tratti da una raccolta pubblicata nel 1924, questi di Neruda sono versi delicatissimi, pieni di rispetto, perché il modo con cui il poeta tende l’orecchio a questo tacere è un atto quasi pudico: è un vero e proprio vedere non invasivo, un’attesa rispettosa, uno starsene a guardare con pazienza e con fiducia. È una lirica molto innamorata se il poeta dice “mi piaci” perfino quando la sua donna sembra distante, o assente, anzi: quella donna piace al poeta proprio nel suo essere assente. È quel modo di essere assente, quel modo di assomigliare alla notte silenziosa e stellata, che giunge a innamorare Neruda. Non so come dev’essersi sentita la destinataria di questa lirica: se l’avessero dedicata a me, mi avrebbe squarciato il petto.
     Ah, dimenticavo: quando scrisse questi versi, Pablo Neruda non aveva neanche vent’anni!


Mi piaci quando taci perché sei come assente,
e mi ascolti da lontano, e la mia voce non ti tocca.
Sembra che ti si siano dileguati gli occhi
e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.

Siccome ogni cosa è piena della mia anima
tu emergi dalle cose, piena dell’anima mia.
Farfalla di sogno, assomigli alla mia anima,
e assomigli alla parola malinconia.

Mi piaci quando taci e sei come distante.
Sembri lamentarti, farfalla che tuba.
E mi ascolti da lontano e la mia voce non ti giunge:
lascia che io taccia con il silenzio tuo.

Lascia che ti parli anche con il tuo silenzio
chiaro come una lampada, semplice come un anello.
Sei come la notte, silenziosa e stellata.
Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perché sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Poi basta una parola, un sorriso.
E sono felice, felice che non sia vero.

Pablo Neruda, Veinte poemas de amor y una canción desesperada, 15



     La versione originale, molto orecchiabile anche per chi non parla spagnolo, proposta anch’essa con un video, cantata da Paco Ibáñez, un cantante spagnolo famoso per mettere i musica poesie spagnole. Non ci neghiamo mai il piacere dei suoni.

Me gustas cuando callas porque estás como ausente,
y me oyes desde lejos, y mi voz no te toca.
Parece que los ojos se te hubieran volado
y parece que un beso te cerrara la boca.

Como todas las cosas están llenas de mi alma
emerges de las cosas, llena del alma mía.
Mariposa de sueño, te pareces a mi alma,
y te pareces a la palabra melancolía.

Me gustas cuando callas y estás como distante.
Y estás como quejándote, mariposa en arrullo.
Y me oyes desde lejos, y mi voz no te alcanza:
déjame que me calle con el silencio tuyo.

Déjame que te hable también con tu silencio
claro como una lámpara, simple como un anillo.
Eres como la noche, callada y constelada.
Tu silencio es de estrella, tan lejano y sencillo.

Me gustas cuando callas porque estás como ausente.
Distante y dolorosa como si hubieras muerto.
Una palabra entonces, una sonrisa bastan.
Y estoy alegre, alegre de que no sea cierto.


sabato 14 gennaio 2012

Le tre lettere più divertenti del cinema italiano

     A proposito di letterine a Babbo Natale e alla Befana, dopo diverse settimane di silenzio su questo blog, di cui devo ringraziare i gestori di Telecom (che mi hanno provocato un ridicolo problema di connessione, mai capito e mai risolto in oltre un mese e mezzo), mi è piaciuto riunire qui quelle che secondo me sono le tre lettere più spassose del cinema italiano. Si tratta di tre celeberrime scene tratte da altrettanto celeberrimi film che vado a presentare in ordine cronologico. Tanto per inaugurare il nuovo anno facendosi due risate…


     La prima lettera è tratta da una scena di Miseria e nobiltà (1954) che vede protagonista quel simpaticone di Felice Sciosciammocca (Totò), un povero scrivano di Napoli che cerca disperatamente di sbarcare il lunario con la sua attività, restandone puntualmente deluso: in questa scena un potenziale cliente analfabeta rompe le ultime speranze di Felice di poter guadagnare qualche soldo.



     La seconda lettera è quell’immortale capolavoro realizzato dalla coppia Totò e Peppino. Siamo nel film Totò, Peppino e… la malafemmina (1956): i fratelli Capone (Totò e Peppino), due sempliciotti uomini di campagna napoletani, vengono a sapere che il loro nipote Gianni (Teddy Reno), studente a Milano, frequenta «donne di malaffare». Recatisi a Milano essi stessi per salvare il nipote, scrivono una lettera all’amata di quest’ultimo, la bella attrice Marisa Florian (Dorian Gray), che secondo loro lo distoglierebbe dai suoi doveri, per convincerla a lasciarlo: nella lettera spiegano a Marisa le loro ragioni, vomitando una valanga di castronerie e di gag comiche divenute celebri come il cavallo di Troia.



     Chiudiamo con qualcosa di più recente. Nel film Non ci resta che piangere (1985) i due amici Mario (Massimo Troisi) e Saverio (Roberto Benigni) mentre viaggiano in macchina si trovano catapultati nel 1492 nella cittadina toscana di Frittole. Una voltà lì, ricevono ospitalità da tal Vitellozzo (Carlo Monni): poiché questi sarà incarcerato per motivi politici, i due provano a chiederne la scarcerazione scrivendo una lettera nientemeno che a Girolamo Savonarola!