martedì 14 marzo 2017

Scripta manent, n. 25 – Il verso del dolore

     Giovanni Pascoli, il poeta del “fanciullino”, ha subìto moltissimi lutti: il primo a 12 anni, quando spararono a suo padre; poi la morte della madre, l’anno dopo; poi ancora la morte del fratello Giacomo... e poi gli studi interrotti a causa del peggioramento delle condizioni economiche e ripresi solo in seguito, l’esperienza del carcere per via delle sue idee politiche... Tutta la vita di questo personaggio è costellata da traumi, bocconi amari, castelli di carta che sono caduti dopo essere stati fragilmente ricostruiti.
     E tuttavia quel suo talento poetico si è sempre mantenuto così “chiaro”, chiaro come di chi vede attraverso una luce forte, come di chi non sembrerebbe distratto e distrutto da tanti affanni. Un talento che emerge nei versi, dominati dalla natura, dai simboli che essa offre e dai suoni, specialmente.
     È quello che avviene ne L’assiuolo, un vero capolavoro di ritmi e suoni: il poeta descrive una notte di campagna che vede un temporale da lontano visibile attraverso nubi scure (un nero di nubi) e udibile dal suono attutito di lampi (soffi di lampi); una notte perlacea, biancastra (il cielo / notava in un’alba di perla), in cui non si riesce a vedere nemmeno la luna (Dov’era la luna?) e le stelle si notano a malapena (le stelle lucevano rare), col suono del mare in lontananza e il fruscio (fru fru) dei cespugli da presso; una notte che evoca ricordi di dolori lontani e che fanno nascere sussulti nel cuore (sentivo nel cuore un sussulto / com’eco d’un grido che fu), in cui anche il vento è una carezza sinistra sulle cime degli alberi (le lucide vette) e in cui le cavallette, col loro verso, paiono suonare sistri d’argento, strumenti musicali composti da lamine metalliche che si usavano nei rituali del culto di Iside legati alla morte e alla resurrezione (suoni che sembrano rivolgersi alle porte invisibili che separano la vita e la morte e che una volte chiuse non si riapriranno più: tintinni a invisibili porte / che forse non s’aprono più?).
     In tutta questa geografia di immagini e rumori, un suono fa da costante, regolare, cadenzato, come un singulto di un pianto, il verso dell’assiolo: chiù... chiù... chiù... L’assiolo (Otus scops) è un uccello rapace notturno, affine al gufo e alla civetta. Il poeta lo ode tra i campi, chissà dove, e ne fa simbolo del suo dolore. Un dolore crescente nel corso della lirica. Esso è prima una voce dai campi (prima strofa), poi un singulto (seconda strofa), infine un pianto di morte (terza strofa).



Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...

Giovanni Pascoli, Lassiuolo, in Myricae


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